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Il nostro saluto ad un grande giornalista, anzi al più grande tra i giornalisti, e sentite condoglianze alla figlia Nicoletta e alla famiglia.
Circa un anno fa, Giorgio Bocca aveva accolto in casa sua, con gentilezza e straordinaria disponibilità, dei perfetti sconosciuti che dicevano (peraltro anche un pò confusamente) di volere realizzare un film sulle langhe e più in generale sulla trasformazione e degrado del paesaggio.
Un lungo dialogo che ci ha fornito i punti cardinali di Langhe Doc, ma soprattutto un incontro che sicuramente noi non dimenticheremo mai.
Di seguito abbiamo raccolto alcuni articoli su Giorgio Bocca.
In ricordo di Giorgio Bocca
di Gad Lerner
Tra i colossi all'apparenza inamovibili che il 2011 ha sradicato, s'è aggiunto, proprio all'ultimo, nel giorno di Natale, il vecchio Giorgio Bocca. Per me era come certi castagni piemontesi che dominano il paesaggio narrato da Cesare Pavese, dal tronco così robusto che ad abbracciarlo non ci riesci, alla cui ombra sapevi di poterti sempre riparare, e mai pensavi che un giorno venisse giù. La sera che è morto ho stappato un barolo di Bartolo Mascarello, altro piemontese tutto d'un pezzo come lui, che teneva in cantina le sue foto con Nuto Revelli, Natalia Ginsburg, Vittorio Foa, Norberto Bobbio, gli altri maestri di cui avvertiamo la mancanza. L'ottimo dolcetto che Nicoletta, la figlia di Bocca, produce a Dogliani, invece l'abbiamo bevuto alla vigilia del funerale. Ne "Il provinciale", libro-capolavoro sui vizi e le virtù del miracolo economico italiano, Giorgio Bocca racconta lo stupore dei milanesi, abituati a bere robaccia, quando sulla sua tavola comparivano certe bottiglie squisite e costose a loro sconosciute. Nel vino e nel cibo misurava il benessere acquisito e nello stesso tempo la distanza che teneva a mantenere dai potenti arricchiti senza cultura. Lo incuriosivano e si divertiva a raccontarli, conservando nei loro confronti una sana diffidenza.
Era già un mito del giornalismo quando rincorreva noi ragazzi davanti alle scuole e alle fabbriche, ricordo il suo sguardo ironico e le sue giacche sformate e il taccuino d'appunti che riversati nel telefono prendevano la forma del racconto effervescente, stralunato ma denso di riferimenti storici. Gli devo moltissimo, bisogna che lo scriva, senza tralasciare la telefonata come sempre brusca in cui consigliò a Livio Zanetti, direttore de "L'Espresso", di assumermi nei primi anni Ottanta. Ma ben maggiore è il debito che porto nei confronti del maestro di vita e giornalismo che onorava immeritatamente noi di Lotta Continua dicendo che gli ricordavamo i suoi compagni di Giustizia e Libertà.
Il suo esempio ci convinse che il giornalismo poteva essere un mestiere degno, anche una forma di godimento del buon vivere, purché non lo disgiungessimo dal gusto dell'interpretazione sociale, dalla fermezza negli ideali dei maestri, e si frequentasse pure il potere perché bisogna conoscerlo, trarne lauti compensi –perché no?- ma cercando di rimanere sé stessi.
Spesso nell'albero genealogico del giornalismo italiano Bocca viene accostato a Enzo Biagi e a Indro Montanelli, anch'essi grandi talenti e spiriti liberi, come dimostrato dalla loro rivolta contro l'edonismo corruttore del Berlusconi vittorioso. Eppure in lui, nella sua scontrosa appartatezza, ritrovo qualcosa di più e di speciale. Nessun altro della sua generazione ha perpetuato fino a che le forze gliel'hanno consentito quella spinta a partire e ripartire in cerca, sempre in cerca. Dormendo in sperdute camere d'albergo, proteso a incontrare testimoni della natura umana, protagonisti minori, anime semplici e studiosi del nuovo, per avvicinarsi all'energia misteriosa, talvolta malvagia, in cui si manifesta la trasformazione sociale. Nel nostro linguaggio banale l'abbiamo chiamata inchiesta. Giorgio Bocca ne ha fatto un'arte. Non chiedo altro al mio mestiere che invecchiare come lui, preservando la sua curiosità, la sua passione, la sua dirittura.
Pochi giorni dopo Giorgio Bocca se n'è andato un altro suo coetaneo, don Luigi Verzè, come lui provinciale venuto nel dopoguerra alla conquista di Milano. Lascio a voi constatare la differenza. Io so solo che mi mancherà quel vecchio grande tronco impossibile da abbracciare.
Addio al giornalista Giorgio Bocca, anti-italiano tra passione e rigore
Partigiano, cronista e scrittore: era nato a Cuneo nel 1920.
A gennaio esce il libro postumo
«Tutti quelli che fanno il giornalismo lo fanno sperando di dire la verità: anche se è difficile, li esorto e li incoraggio a continuare su questa strada». Un testamento ideale quello che Giorgio Bocca, firma storica del giornalismo italiano, scomparso oggi all'età di 91 anni, affidò alle nuove generazioni nell'aprile 2008, ricevendo nella stessa casa di Milano dove oggi si è spento dopo una breve malattia, il premio Ilaria Alpi alla carriera.Un testamento anche il titolo del libro che uscirà l'11 gennaio per Feltrinelli, «Grazie no. 7 idee che non dobbiamo più accettare». Bocca rimane l'Antitaliano, come si chiamava la sua celebre rubrica sull'Espresso, fino all'ultimo giorno. La ricerca della verità, accompagnata dal rigore analitico, dalla passione civile, da uno stile fatto di sintesi e chiarezza e fortemente segnata dal suo carattere, un mix di disciplina sabauda, curiosità severa e vis polemica: questi i valori che hanno ispirato la carriera più che cinquantennale di Bocca.
Valori che il giornalista e scrittore, medaglia d'argento al valor militare, aveva vissuto fino in fondo soprattutto nei primi anni di attività, quelli della guerra e della militanza partigiana: «I giornalisti della mia generazione - sottolineò in una delle sue ultime apparizioni in tv, ospite a Le invasioni barbariche su La7 nel novembre 2008 - erano mossi da un motivo etico: ci eravamo messi tragedie alle spalle, perciò il nostro era un giornalismo abbastanza serio. Oggi la verità non interessa più a nessuno» e «l'editoria è sempre più al servizio della pubblicità». Nato a Cuneo da una famiglia della piccola borghesia piemontese nel 1920, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, appassionato di sci agonistico - e perciò noto nell'ambiente del Guf (la gioventù universitaria fascista) cuneese - Bocca iniziò a scrivere già a metà degli anni 30, su periodici locali e poi sul settimanale cuneese La Provincia Grande.
Durante la guerra si arruolò come allievo ufficiale di complemento fra gli alpini e dopo l'armistizio fu tra i fondatori delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà: «L'ho fatto per pagarmi il biglietto di ritorno alla democrazia», spiegava. Riprese allora l'attività giornalistica, scrivendo per il quotidiano di GL, poi per la Gazzetta del Popolo, per l'Europeo e per Il Giorno e segnalandosi per le inchieste. Nel 1976 fu tra i fondatori, con Eugenio Scalfari, del quotidiano la Repubblica, con cui aveva continuato a collaborare fino alle ultime forze. Al suo attivo anche numerosi libri, che spaziano dall'attualità politica e dall'analisi socioeconomica all'approfondimento storico e storiografico, dalla questione meridionale alle interviste ai protagonisti del terrorismo, senza mai dimenticare la sua esperienza partigiana, in nome della quale aveva anche polemizzato di recente con alcuni tentativi di revisione critica della Resistenza e in particolare con Giampaolo Pansa.
Tra i titoli più noti di Bocca, Storia dell'Italia partigiana (1966); Storia dell'Italia nella guerra fascista (1969); Palmiro Togliatti (1973); La Repubblica di Mussolini (1977); Il terrorismo italiano 1970-78 (1978); Storia della Repubblica italiana - Dalla caduta del fascismo a oggi (1982); l'autobiografia Il provinciale. Settant'anni di vita italiana (1992); L'inferno. Profondo sud, male oscuro (1993); Metropolis (1994); Italiani strana gente (1997); Il secolo sbagliato (1999); Pandemonio (2000); Il dio denaro (2001); Piccolo Cesare (2002, dedicato al fenomeno Berlusconi, libro che segnò il passaggio di Bocca da Mondadori, suo editore da oltre dieci anni, a Feltrinelli); Napoli siamo noi (2006); Le mie montagne (2006); È la stampa, bellezza (2008). Annus Horribilis, Milano, Feltrinelli (2010). Fratelli Coltelli (1948-2010 L'Italia che ho Conosciuto), Milano, Feltrinelli (2010). Nella vita di Bocca c'è stato spazio anche per una breve esperienza televisiva su Canale 5, alla fine degli anni '80, con la rubrica I protagonisti. «Quando andai a lavorare a Canale 5 - raccontò in un'intervista - Scalfari disse "Giorgio si è innamorato di Berlusconi". E in effetti mi piaceva la sua capacità di fare la tv sul piano tecnico e organizzativo. Ma quando si mise a far politica, cambiai idea».
Con l'abituale lucidità, così sintetizzava la sua biografia politica: «Sono uscito dal fascismo, sono entrato nella Resistenza a capo di una divisione partigiana di Giustizia e libertà e poi, pur essendo stato vicino al Psi non mi sono più iscritto ad alcun partito: non ho più voluto avere uno che decidesse sulla mia testa». Alle elezioni del 2008 non aveva neanche votato: «Mi ha stufato la politica com'è in Italia».
La famiglia di Bocca ha fatto sapere che intende essere lasciata tranquilla e affrontare la vicenda «in modo privato».
Giorgio Bocca: "Non sono uno snob ma odio la gente"
di Massimo Gramellini
Il giornalista: "Questa Italia è ladra e corrotta. Il popolo sovrano? E' pronto a tutti i delitti"
Il pessimismo allunga la vita. E mantiene dritta la schiena. Quella di Giorgio Bocca è drittissima, e non solo per metafora. All'alba dei novant'anni l'arzillo catastrofista cuneese ha pubblicato un saggio dal titolo molto giorgiobocchesco - Annus Horribilis (Feltrinelli) - scritto in una lingua limpida e densa come i torrenti delle sue valli.
Prima pagina del libro e subito un cittadin per terra: Gianfranco Fini. La sinistra lo adotta e lei gli spara addosso?
«È il tipico carrierista che difende le forme della democrazia, ma nella sostanza permette al sultano di continuare a governare».
Bene, siamo partiti leggeri.
«Chi vuol fare carriera non dovrebbe mai dire quello che pensa. Nel 1948, ero alla Gazzetta del Popolo, mi chiesero per chi avrei votato al referendum. Ma per la Repubblica, risposi io, ingenuo. Stupore assoluto. La Sip, padrona del giornale, sapeva che la sinistra voleva nazionalizzare l'azienda e tifava per i monarchici. Da allora il direttore Caputo mi fece mangiare merda. Ogni notte in tipografia urlava: chi è il coglione che ha passato questa notizia? I colleghi si aprivano come il Mar Rosso e in mezzo rimanevo io… Il mondo è pieno di servi».
Lei se la prende molto con gli urlatori da talk show.
«L'avvocato Ghedini… Ogni volta che lo vedo mi contorco sulla sedia dalla rabbia. Potessi, lo strozzerei. Ti portano via la parola come delle iene. La tv è una rovina per la democrazia. Non insegna ad ascoltare, ma a urlare».
E naturalmente il grande burattinaio dello spettacolo resta Lui.
«Lui è un maestro in queste cose. Ricordo quando intervistai Craxi per le sue tv. Arriva Bettino e mi saluta con tono minaccioso: "Professore, come va?" Berlusconi sparì subito in regia. E guardando l'intervista capii poi il perché. Io ero ripreso sempre di nuca (cominciavo a essere un po' calvo) e Craxi in primo piano, ridente e sfottente».
Lei ha sempre avuto un debole per il segretario socialista...
«È stato il Machiavelli della corruzione mentale degli italiani. Il suo celebre discorso alla Camera: siccome rubiamo tutti, non ruba nessuno».
I suoi seguaci dicono che ha pagato solo lui, non i capi comunisti.
«I leader del Pci non avevano bisogno di rubare: ricevevano i soldi dall'Urss. E poi per loro rubare era ancora un delitto. Adesso non c'è più differenza, se non che a destra si ruba in grande e a sinistra in piccolo. Non è tanto il denaro che li affascina, ma l'idea di farla franca. Durante il fascismo uno che rubava era fuori dalla società. A rubare erano pochissimi, Ciano, Farinacci. I piccoli gerarchi non rubavano».
La accuseranno di parlar bene dei fascisti, pur di parlar male dei contemporanei.
«Si era onesti perché c'era poco da rubare. La piccola borghesia aveva delle virtù. Poi i soldi hanno corrotto tutto. Conoscevo dei socialisti, a Cuneo, che facevano campagna elettorale in bicicletta. Dopo è arrivato Craxi e ho iniziato a vederli girare in automobile. Prima ai comizi bevevano vino acido. Poi davano banchetti».
Gli ex comunisti sembrano essersi adeguati.
«La fedeltà è una delle virtù civili. Sono un partigiano e resto fedele alla sinistra anche quando fa delle coglionerie. Perché ne fa… Il capolavoro è stata la Puglia. Quel D'Alema… Uno odioso a tutti, un piccolo gerarca. Questa sua fama di intelligenza che consiste nel fare sempre le mosse sbagliate».
E il sindaco della rossa Bologna inguaiato dall'amante?
«Mi sembrano piccoli peccati. Un tempo impensabili, perché c'era il controllo della classe operaia sul candidato. Ma ora la classe operaia non esiste più».
Immagino che il gossip le faccia venire l'orticaria.
«Signorini e Corona sono due personaggi che in una società normale la gente si vergognerebbe di far entrare in casa. Berlusconi ha capito che i peccati sessuali sono un'arma di potere. Fa politica con un giornale di gossip e così riesce a uccidere gli avversari. Guardi quel Boffo come è stato giustiziato».
Lì Signorini non c'entra. È stato «Il Giornale», oggi di Feltri e un tempo del suo amato nemico Montanelli.
«Montanelli era un attore, con tutti i difetti degli attori, ma una brava persona incapace di colpi bassi. Certo, un contaballe… Durante la resistenza, ha raccontato così tante balle sulla sua amicizia con i partigiani che alla fine i fascisti sono stati costretti a metterlo in galera. Però era un uomo dell'Italia onesta che non rubava».
E il suo successore?
«Di Feltri non penso niente, perché mi fa paura».
Giuliano Ferrara?
«Un altro pazzo, ma mi è simpatico. Il Foglio è l'unico giornale culturale che esista in Italia».
I terzisti?
«Fanno i finti tonti. Chi non sta né di qua né di là finisce inevitabilmente per andare di là. Perché non c'è mediazione possibile: i ladri sono ladri».
Nel libro cita una battuta di Confalonieri su Berlusconi. «È come Anteo, se lo butti a terra, moltiplichi le sue forze».
«Berlusconi è pericoloso perché è abile, furbo. Usa tutti i mezzi, anche quelli illeciti come la diffamazione. È un fondatore di imperi, la forza bruta del capitalismo che distruggerà il capitalismo. Dal punto di vista clinico, un megalomane. Quando lavoravo per lui ricordo le telefonate alle otto del mattino, la segretaria che prima di entrare nel suo ufficio mi obbligava a mettere la cravatta che teneva nel cassetto».
I veri tiranni preferiscono essere temuti più che amati.
«I megalomani vogliono essere amati anche dalle persone che atterriscono… Aveva una tale smania di ottimizzare tutto che un ex giocatore di basket lo seguiva con un cronometro manuale e prendeva il tempo delle sue conversazioni. Per cui tu eri lì che parlavi con Berlusconi e quello ogni trenta secondi ci interrompeva: Dottore, sono passati trenta secondi… Dottore, è passato un minuto…».
Si rassegni. Quell'uomo vuol essere amato ed è amato.
«Gli italiani invidiano chi ha un euro più di loro, ma oltre un certo livello di ricchezza l'atteggiamento cambia. Lo straricco è ammirato. Pensi all'Avvocato».
Lei non va matto per «la gente».
«Il popolo sovrano è pronto a tutti i delitti. La storia d'Italia l'hanno fatta le minoranze. I Mille di Garibaldi e della Resistenza, minoranze estreme che muovono un popolo egoista, grigio. È stata la Chiesa a diseducarlo con confessioni e giubilei. Della religione cattolica mi piace la pietas, non il perdono generalizzato».
Diranno che è uno snob.
«L'unico che tenta di esserlo è Sgarbi. Ma l'italiano è il contrario dello snob. Noi siamo melodrammatici».
Come la tv?
«La tv è una Filodrammatica: tutti nella vita recitano come se fossero in tv. La guardo molto. Spesso mi addormento davanti. Ormai è una ripetizione di tutto. Persino il cattivo gusto è diventato difficile da rinnovare».
I comici?
«Questi di Zelig non fanno proprio ridere. Neanche Macario mi faceva ridere. Totò sì, per le mosse da marionetta. E Sordi per il suo cinismo, certo non per l'umorismo. L'umorismo è sconosciuto agli italiani. È una specialità degli ebrei americani».
Cosa guarda, allora?
«Lo sport. Almeno il calcio è autentico».
Sicuro? Girano tanti di quei soldi anche lì.
«Ma almeno i calciatori corrono, si feriscono continuamente. Le partite sono vere».
E la sua Juve?
«Ciro Ferrara! L'allenatore non è il suo mestiere. Questa Juve non ha un gioco. A me piace quello del Genoa, Gasperini».
E Obama le piace? Il 2009 è stato abbastanza horribilis anche per lui.
«Ha una cattiva stampa, ma ce la mette tutta. Forse ha suscitato troppe speranze. È difficile imporre delle novità a un Impero: alla fine lì sono i militari che decidono».
Lo scrittore Martin Amis sostiene che ci sono troppi vecchi al mondo e propone un'eutanasia obbligatoria al compimento dei 70 anni. Lei ormai è fuori pericolo.
«Quell'idea c'era già in un racconto di Buzzati. Magari ci arriveremo. Mi sembra la grande vendetta di Hitler. Il dominio dei più forti sui più deboli».
Lei scrive, legge, si emoziona, si indigna, mangia con appetito. È davvero così terribile diventare vecchi?
«Quando ero giovane e forte avevo coraggio. Se ripenso a quei venti mesi di guerra vissuti come una splendida vacanza… Andavo in giro col mio fucile convinto di essere immortale. Adesso mi sento fragile e ho così paura di tutto che non esco quasi più di casa. La morte è una fregatura, ma l'immortalità non mi attira. La noia è micidiale a 90 anni, figuriamoci a 200».
Ai vecchi saggi si chiede di predire il futuro.
«Il genere umano sta andando verso l'autodistruzione. Siamo troppi e il mondo è troppo piccolo per noi».
In che cosa crede un pessimista universale?
«Nella dignità dell'uomo. I ladri sono degli stupidi che si fregano da soli».
Ci regali almeno una speranza. Anche piccola, la prego.
«Se viene di là, le offrirò l'unica cosa veramente buona che esiste al mondo. Un bicchiere di vino».
Auguri a Bocca, il giornalista partigiano
di Gad Lerner
Sabato 28 agosto Giorgio Bocca compie 90 anni. Questo articolo è uscito su "Vanity Fair".
Fra pochi giorni Giorgio Bocca compie 90 anni e io faccio fatica a esprimergli l'affetto che provo per lui. L'uomo è ruvido, vedo già i suoi occhi stringersi felini nella preparazione dello sfottò, come ogni volta: "Guardalo il Gaddino, e chi l'avrebbe detto che quel pivello del Gaddino ci diventava un sciur pareil…". L'aiuto, tanto per mettere le cose in chiaro, Bocca te lo dà gratis –se gli gira- solo all'inizio quando sei un ragazzino che lui si diverte a osservare in azione. Nel mio caso telefonò, sarà stato l'inizio degli anni Ottanta, mentre gli sedevo di fronte, al direttore Livio Zanetti per dirgli che valevo la pena come ragazzo di bottega a "L'Espresso". L'avevo incuriosito negli anni di piombo, quando veniva a dirci che noi di Lotta Continua gli ricordavamo l'intransigenza partigiana di Giustizia e Libertà, senza che neppure comprendessimo la preziosità di un tale complimento sulle sue labbra ironiche. Ma dal momento dell'assunzione basta favori, in lui scattavano giustamente sospetto e competitività, vivendo il giornalismo come una passione divorante: "Ehi pivello, cercherai mica di farmi ombra?". Ricordo quando ottenni sei mesi d'aspettativa dal giornale per scrivere un libro sugli operai della Fiat: "Ma come puoi resistere mezzo anno senza la tua firma sul giornale?", chiedeva accorato. "Io impazzirei, per sentirmi vivo ho bisogno di vedere il nome stampato e ben piazzato tutte le mattine, altrimenti sto male".
Quel che vorrei dire a Giorgio Bocca, se non sapessi di procurarmi con ciò una risata di compatimento, è che non ha mai smesso di essere il mio modello ideale di giornalista. Senza nessun altro paragone possibile. Di lui amo lo sguardo, la zampata, l'antiretorica, lo star dentro e fuori insieme, la furbizia, la semplicità. Ma amo e ho invidiato prima la sua biografia semplice di partigiano. La scelta di vita fatta al momento giusto, un corso ufficiali degli alpini nel 1939, e elevata a valore-guida su cui non si scherza. Pochi mesi fa, quando gli ho mandato con dedica il mio "Scintille", ne ho ottenuto la seguente mail in risposta: "Grazie per il libro sulle tue strane origini".
Ecco, le origini del Bocca non sono strane affatto. E ne determinano pure quel che lui stesso definisce il suo lato grigio, le condivisibili debolezze: attaccamento al denaro e mangiar bene. Sono impareggiabili, nel suo libro più personale, "Il provinciale", le pagine dedicate al piacere di comprare gorgonzola a mezzo chilo per volta dal salumaio più lussuoso; ma soprattutto ai ricconi milanesi ignoranti, abituati a bere schifezze, che stupefatti gli chiedono come mai alla sua tavola si beva vino rosso così prelibato, e lui risponde: basterebbe pagarlo caro, signori, potreste anche voi.
Se queste sono le debolezze del giornalista partigiano –soldi, cibo e vino per sentirsi arrivato e appagato- capirete che dopo può permettersi la necessaria intransigenza. Va a vedere curioso il Berlusconi degli inizi, facendosi pagare profumatamente dalla nascente tv commerciale. Assaggia, si ritrae disgustato, non smetterà di scrivere qualche ne pensa. Prima di altri, e senza clamore, deciderà che potendoselo permettere è meglio interrompere la collaborazione alla Mondatori, divenuta proprietà dell'uomo più potente d'Italia. Oggi lo segue il teologo Vito Mancuso, e anche il prete don Andrea Gallo. Senza essere cristiano e cattolico come loro, Giorgio Bocca arriva a 90 anni confessando per iscritto le sue tentazioni, desideroso com'è di vincerle. Ma non troppo: altrimenti che gusto ci sarebbe a fare il giornalista?
Langhe Doc
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